martedì 13 marzo 2012

Hot Dog e rappresentanti di saloni di bellezza

“Signorina? Signorina! Si Fermi! Mi scusi!”
Ti giri e sai che non avresti dovuto farlo. Un tizio trafelato con valigetta e volantini ti intercetta e ti stoppa come un passaggio a una partita di calcio. Siamo davanti al Flatiron building e tutto quello che voglio dalla vita in quel momento é procacciarmi del pranzo.
“Signorina…le piace andare dal parrucchiere? Che ne dice di un bel makeover in uno dei nostri nuovi saloni?” Fa il tipo.
“Ma io veramente non avrei proprio – “
“Ma lei non ha capito ancora quale offerta io voglio farle! Guardi qui,” e apre il volantino. “Guardi. Un makeover facciale completo: scrub, trattamento antiacne, maschera antirughe, PIU’ taglio, piega, asciugatura! Quanto costa tutto un trattamento simile, me lo sa dire? – comunque, belle scarpe!”
“Ehm, grazie.”
“Lo sa? No che non lo sa! Perché nessuna giovane abitante di New York come lei, magari studentessa, spenderebbe tutti questi soldi. Io le offro tutto questo al prezzo di 60 dollari anziché 250! Non é splendido? Dia un’occhiata!”
Lo fisso negli occhi e prendo il volantino sperando, in cuor mio, che questa persona venga pagata in proporzione agli insulti che si prende ogni giorno. Mi fingo interessata al volantino e lo lascio sproloquiare, posando gli occhi sulla sezione in cui si richiede il numero della carta di credito. Purtroppo, ogni cittadino semi intelligente sa che: 1) MAI lasciare cose quali numeri di carta, di telefono, indirizzi et similia a gente per strada; 2) Un salone che ha bisogno di tutta questa esaltante pubblicitá non é detto che sia una garanzia.
Glielo restituisco con un sorriso e un dolce “Grazie, non mi interessa!” Lui mi guarda con occhi assatanati.
“Ma no, signorina! Lei non capisce quello che si perde! Dove sta andando? Aspetta! GUARDA QUI CRETINA! IO DEVO LAVORARE! SIGNORINAAAAA!”
*
Fuori dalla fermata di casa, davanti a Sephora. C’é questo nugolo di ragazzi che sembrano rappresentanti dell’ArciGay. Cerco di dribblarli passando dietro a una signora, ma uno dei tizi, un bel ragazzo di colore con una turtleneck attillata grigia – una delle cose meno eterosessuali che abbia mai visto in vita mia, mi intercetta e mi prende per una spalla.
“OH-OH – ma che bella ragazza che abbiamo qui! Senti, Tesoro, non é ora di pensare a un bel restyling per la tua acconciatura? E – cavolo, belle scarpe!”
“Grazie, adoro le Oxford.”
“Hai gusto! A maggior ragione, non posso lasciare andare una bella ragazza come te senza questa favolosa offerta! Sai?” Si piega verso di me e sussurra. “E’ solo per og-gi!”
E alla fine della frase ti immagini ci sia un cuoricino. 
Lo fisso. Questo da smontare sará difficile. Continua a parlare scuotendo il sedere e sventolando le mani e io mi immagino cuoricini che gli svolazzano intorno tipo my little pony.
Mollami. Voglio solo prendermi un hot dog. Tutto quello che chiedo da questa giornata é arrivare a casa con il mio hot dog. Un bell’hot dog da un dollaro con tutto il coleslaw sopra. Yummmm.
Alla fine mi salva la storia della carta di credito. “Non ti do un soldo,” gli dico, e fuggo via tra le sue urla.
Il piú persistente: a Penn Station, alle sette dis era, ora di punta: un tizio cicciotto, decisamente poco elegante, ma piú convinto di tutti gli altri. C’era una partita dei Lakers a Madison Square Garden e in stazione non si passava. Tuttavia la prescelta, tra tutta quelle gente, sono proprio io. Ma mi sento ispirata e decido di lasciarlo parlare. Passano dieci minuti in cui lui esalta miracolosi trattamenti all’avocado, eliminazione totale di punti neri e smagliature e capelli che se scuoti la testa fanno swoosh. io annuisco e sorrido. Li ho contati, dieci minuti senza quasi prendere respiro.
“E insomma ha capito?” Ansima alla fine tipo ippopotamo. “Vuole provare? Ma si che vuole provare! Basterá riempire questo modulo!”
“Ma scusi,” obietto io, “Perché devo firmare per forza questo coso? Non posso venire direttamente in salone con il coupon?”
La domanda ovvia distrugge tutti.
“Eh ma no, ma perché, ma come sarebbe a dire, ma serve solo una firmetta, ma suvvia.”
“Lei si rende conto che ci troviamo a New York, sí?”
“Ma certo, e allora…?”
“Arrivederci!”
“Ehi, aspetti! DOVE CREDE DI ANDARE!!! TORNI QUI! LEI E’ UNA CRETINA A LASCIARSI SFUGGIRE UN’OFFERTA SIMILE!”
Gli faccio un cenno con la mano e mi dileguo tra la folla. Lui mi guarda andare via, deluso.
“…E comunque, belle scarpe!”



NB: Ci tengo a puntualizzare che tutto questo é successo davvero. Due di questi signori mi hanno fermata nella stessa giornata e tutti hanno usato la scusa delle scarpe. Persino uno al supermercato, mentre metteva in ordine gli yogurt, mi ha fermato per dirmi che erano belle. Belle scarpe e capelli di merda? Non lo sapremo mai.

lunedì 5 marzo 2012

La Categoria che fa l'America

La donna decise di abortire. Quando il feto venne estratto, peró, la bambina di cinque mesi che vi era all’interno era ancora viva. Oggi questa bambina ha scritto un libro e va in tv a raccontare del suo miracolo. Il suo nome é Gianna Jessen. É una donna con un sorriso largo, che arriva agli occhi e le fa le rughette sulle guance, quei sorrisi che mostrano tutti I denti e che, se escono finti o forzati, si nota da morire.
“Ma riesci, oggi, da adulta inamorata della vita, a perdonare tua madre?” le chiedono. Lei fa il sorriso forzato che fa vedere tutti I denti ed esita.
“Si, io la devo perdonare. Perché sono Cristiana, e il perdono é parte del cristianesimo. Io la devo perdonare, perché sono Cristiana, e devo…”
Devo. Devo. Lo ripete. Sono Cristiana. Sono Cristiana.
Di colpo, sentendola parlare, mi sono venuti in mente i primi film di Tim Burton, con quei vialetti lunghi e le case tutte uguali ai due lati della strada. Ai divani con due lampade, una a ciascun lato. Fateci caso, nei film americani ci sono spessissimo. Ho pensato alla mia coinquilina che raccontava della signora che va nel negozio di Chanel di Saks 5th Avenue e compra tre giacche uguali, per paura di rimanere senza. E allora lei ripete, ripete. Anche questa Gianna Jessen, anche se solo a parole, mette una fila di vasi tutti uguali sul davanzale della finestra. Due candelabri uguali ai due lati del tavolo. Due lampade uguali ai due lati del letto, ai due lati del divano, ai due lati della tivú. Sono scristiana. Sono Cristiana. Devo perdonare.
Le lampade uguali ai due lati della vita, questo nuovo simbolo dell’uomo moderno che non sopporta la solitudine di un elemento unico che diviene protagonista e che no nsa come affrontarlo, al quale non saprebbe dare una risposta pacata come quel ‘la devo perdonare’.
Questo reiterare, questo ripetere in ogni contesto della vita che crea un ordine solo apparente ma che non riesce a nascondere una pesantezza di fondo. L’insicurezza di non essere in grado di gestire un elemento solo, per non soffrirne la mancanza, perché appartenere a un punto con piú similitudini é come ‘schivare’ la solitudine.  La Categoria, che ce ne salva. Allora, sentendola parlare, ho pensato: nessuno é convinto della categoria a cui appartiene come un Americano. Sono Cristiana, é questo che mi da la sicurezza di perdonare mia madre.
Tutti lo facciamo, perché la Categoria é un modo come un altro di incastrarci nel puzzle sociale, per salvarsi da una solitudine che altrimenti non si saprebbe combattere. Ma, se magari a volte qualche dubbio circa l’inserirci in una di esse puó insorgere, in America la convinzione di appartenenza si sente con un forza quasi malata. I Blue Collar, I White Collar, quelli del Bronx, le nere, I messicani, le Checche, quelli che vivono nel New Jersey, I Cristiani, gli Ebrei, quelli del Lower West Side, gli hipster di Brooklyn, eccetera. Io faccio una determinata cosa, mi comporto in un determinato modo, per la maggior Gloria della categoria a cui appartengo.
Quando feci domanda all’universitá, nel form d’iscrizione mi si chiedeva se fossi d’origine ispanica.
“Ma perché vogliono sapere se ho origini ispaniche? Che gliene frega?” chiesi ingenuamente.
“Eheh, vogliono sapere se porterai una pistola in classe,” mi sentii rispondere. Lí per lí mi sembró una risposta di cattivo gusto, ma in seguito capii che il motivo era quello per davvero. É come se in Italia nello stesso form ti chiedessero se sei rumeno. Si solleverebbe un polverone. Eppure a New York é una cosa normale, non tanto per mancanza di rispetto quanto per l’effettiva forza con la quale si sente di fare di una categoria un fascio, compresa (e soprattutto) la propria.
E Gianna Jessen perdonerá sua madre. Perché é Cristiana.
Me la immagino, la madre di questa donna, che se mai un giorno vorrá chiedere perdono lo fará inginocchiandosi e accendendo un lume al Dio di cera che le colerá sulle mani mentre prega. Pregherá e pagherá le candele, e chissá se le basterá quando si ritroverá la gola e le mani impastate di un perdono elargito da Dio e non dalla figlia. Sono cert ache questa madre tenesse piú al perdono della figlia che al perdono di Dio.
E allora mi sono chiesta: Non ci puó essere una capacitá di perdono che deriva dall’animo umano proprio perché noi siamo uomini, senza doversi per forza attaccare a un’idea o a un ideale? Non esiste una capacitá di ascolto, di compassione, di umanitá che deriva da una capacitá di comprensione piú che da una bontá d’animo, e non imposta dalla categoria a cui si sente di appartenere?
La categoria si forma per facilitare I rapporti umani o perché, effettivamente, non siamo in grado di privarci di una delle due lampade? Ma non c’é un modo per l’umanitá di trovare ragioni per perdonare non perché si appartiene alla categoria dei cristiani, ma per capire cosa per sé stessi significa il perdono? Non c’é un modo per l’uomo di non essere razzista non perché sei repubblicano e quindi devi accettare tutti, ma perché é bene realizzare che siamo tutti uomini?
Ma soprattutto: Gianna Jessen, la donna che é oggi, sarebbe in grado di perdonare sua madre se non fosse Cristiana?

mercoledì 29 febbraio 2012

Un croissant che sembra un sorriso - da Chez Paul a Parigi

A Parigi, oltre Charles De Gaulle, piove e fa freddo. Ma sei a Parigi, chissenefrega se piove e fa freddo, che anche sotto la pioggia riesci a immaginarti da lontano la cittá come se camminassi con Allen nel film ‘Mezzanotte a Parigi’, nel quale si dice che solo lei é meravigliosa anche quando il tempo fa schifo e ti rendi conto che, sotto tutta quella meraviglia, il miglior souvenir da portarsi a casa é una viennoiserie che esorcizzi in un morso le varie chincaglierie a forma di tour Eiffel con una lubrica croce di burro.
Ne hai bisogno, tremendamente. Con ancora le reminescenze dell’America in testa, guardo fuori e mi immagino i miei parenti che mi saluteranno chiamandomi l’Americana, dandomi un ganascino sulla guancia e chiedendomi come ho mangiato all’estero, che I ravioli al tartufo col cavolo che li trovi fuori, e quando decanti I formaggi trovati in una trattoria Toscana a New York calano mascelle che neanche certi nostrani politici caddero cosí di gran carriera. Mi sovvengono immagini e odori di gente a tavola che discute davanti ad anatre e patate alla besciamella del fatto che tutto é inquinato e bisognerebbe mangiare poco, della casa che quando entreró saprá di bollito, del buoncostume campagnolo che compiange il grigiore della cittá pur non avendolo mai visto. Ti diranno che un giorno non ti vedranno piú. Non si sa se perché torneró all’estero o perché moriranno prima loro.
Poi guardi, immagini, Parigi, un pezzo di lei all’aeroporto, l’altro lontano, da Roissy alla Gare du Nord: Delle cose, della gente che scorre a fiumi, dei cibi, e le promenades e una bellezza adolescente, caotica e incurante di mostrarsi elegante, una bellezza alla quale si perdona persino il farci rimanere soli. E poi sovvengono le immagini di New York con I pazzi sulla metro e quelli che cantano per strada.  Questo e tutto il resto immagino, con una sorta di malinconia che stringe al cuore perché non ti permette di ignorare il fatto che, di tutto questo, tu fai parte: Di New York, del buoncostume campagnolo, dell'odore di sugo. Che é una cosa bella. un po' confusa, forse alle volte condita di rabbia, ma bella.
Ma nel torpore del mattino presto, a Parigi, l’idea migliore é prendersi un croissant, perché – pensate quel che vi pare, nemmeno in Italia li facciamo come I francesi. Mi dirigo da Paul e faccio la fila per un caffélatte e chissá cos’altro, davanti al bancone che nel bagliore di tutte quelle paste meravigliose sembra risplendere d’oro. É quasi commovente.
La commessa, una donna ben truccata e con una faccia che lasciava ad intendere che piú di ogni altra cosa avrebbe voluto essere da un’altra parte, mi chiede con aria arcigna cosa voglio. Opto per un mini croissant e un mini pain au chocolat, mentre mi sposto dall’altra commessa –sorridente, come la parte felice delle due maschere che fanno da icona al teatro – per pagare. La signora dietro di me parla con un’altra donna e non considera la commessa scocciata, che aspetta impaziente il suo ordine. Vedendo che la signora continua a non considerarla, la commessa cerca di farsi notare con un ‘bonjour, madame’. Niente. Qualche istante e la fila aumenta, mentre la signora discute col marito su cosa sia meglio prendere. La commessa le lancia un sonoro ‘Bonjour, AH?’ e la tipa ancora una volta non raccoglie. La commessa esplode. Al terzo ‘madame, BON-JOUR!’ la tipa finalmente si gira e, mentre l'altra commessa mi informa che le devo 4 euro – quasi come dire ‘bienvenue a Paris!’ perché nessun altro ti fa pagare un euro per un mini croissant – l'ignorante signora prende finalmente l’ordine per lei, l’amica, il marito, I figli e tutto.  In questo misto quasi da commedia di volontaria ignoranza e frustrazione verso la vita, mi viene da guardare la bambina bionda che la tizia si porta appresso. Incrociamo gli sguardi, e lei mi sorride. Ma un sorriso ampio, bello, onesto e ingenuo come solo quello dei bambini, e qualcosa nel grigiore di Charles de Gaulle quella mattina si illumina.
Quando mi siedo con il mio caffé, le mie paste e il mio Elle á Table, mi viene da pensare alla scenetta vista prima. Al ‘Bonjour, AH?’ della commessa frustrata. allo splendido sorriso della bambina bionda. All’ignoranza lasciva e rilassata della signora, spiaggiata lí sul bancone come un tedesco a Rimini. 
Ho pensato:
E se verso la vita ci comportassimo come quella tizia al banco? Se ci fossero cose che continuano a chiamarci arrabbiate, e alle quali noi voltiamo le spalle intenti a parlare con altre persone delle scelte che vorremmo fare e sulle quali non sappiamo deciderci? Immaginiamoci, che so, un ipotetico destino, che al contrario della commessa non ha bisogno di trattenersi e ti urla un bel ‘girati, stronzo!’ e te tranquillo sei troppo occupato a scegliere se vuoi una tarte aux pommes o un croustillant alle mandorle o un semplice cacchio di cornetto, mentre la cosa piú importante in quel momento é girarsi e andare avanti, che se no le cose davanti a te se ne vanno e quelle dietro cominciano a spingerti in massa. C'é un destino che, da dietro l’immenso counter delle scelte della vita, ti urla disperato di guardarlo in faccia, di tanto in tanto.
Ecco, la vita riassunta in una boulangerie di Parigi, alle sette del mattino.
Si pensi ció che si vuole, io continuo a pensare che, per frustrata e arcigna che quella commessa fosse, ogni sorriso le avrebbe rallegrato la giornata, anche se con solo un micromillesimo di luce, come il sorriso di quella bambina l’aveva rallegrata a me. E allora ho capito che non importa se scegliamo un croissant che non ci piace, perché c’é sempre la possibilitá di vedere quel sorriso in qualunque cosa e c’é sempre la possibilitá di essere quel sorriso per qualcun altro. Sono salita sull’aereo pensando che davanti a tutto ció che chiamava, ma a tutto tutto, avrei voluto sorridere come quella bambina, e allora il mio destino sarebbe stato felice. Anche se alle volte un po’ arrabbiato. 
Lasciamo quindi le statuette della tour Eiffel ai turisti americani e mangiamoci per strada il nostro souvenir, che a forma di croissant sembra pure un bel sorriso. Perché, per quanto ogni volta che lo dico vengo sbeffeggiata e insultata, non smetteró mai di ripeterlo:
“Come I francesi, le paste non le fa nessuno.”

giovedì 23 febbraio 2012

5 cose Italiane

Ripensando al post sull’essere italiani all’estero ho fatto una considerazione: a un Americano che mi cheide a cuore aperto di raccontargli l’italia, che cosa risponderei? 
É dura riassumere perché ogni italiano, da varie parti d’italia, dará certamente risposte diverse. Ma ho voluto pensare a 5 cose assolutamente italiane, belle o magari solo caratteristiche, che per quel che mi riguarda mi rappresentano:
- Lo Zucchero in fondo alla tazzina del caffé: Io ho cominciato a prenderlo solo quest’anno, da quando, a New York, ho pensato a questa peculiaritá italiana e me n’é venuta nostalgia. In fondo alle tazzine da caffé, dopo il borbottio della moka e quel liquido nero che va giú in un soffio, quel rimasuglio color ambrato. Un colore splendido, che mi perdo a guardare come una veggente delle foglie di té. Andiamo, cosa c’é di piú italiano del colore caldo di quello zucchero avanzato sul fondo della tazza? 
- Le bucce di mandarino e arancia e le briciole sulla tovaglia: il post pranzo di ogni famiglia di campagna. In mezzo alla tavola: portacenere, carte e sigarette. Tra il rusco, I resti di ció che é di stagione. I bambini, da quegli agrumi, tolgono I peletti bianchi e I grandi urlano loro ‘cosa capi, mangia tutto!’ ma I peletti bianchi si toglievano forse piú per divertimento che per disgusto, e andavano a cadere tra le briciole di pane che si mangia ad ogni pranzo, insieme alla pasta. 
“Che profumo, quelle arance. Vengono dalla sicilia.”
Ancora oggi io ne tolgo I peletti. Ancora oggi, la Sicilia sembra una terra lontanissima.
- Le bestemmie: perché gli italiani sono presuntuosi. Ce lo dicono tutti e lo dicono perché é vero. Non c’é provincialismo piú presuntuoso di quello degli italiani, gli unici la cui lingua si prende il lusso di insultare Dio in persona. Sará che noi col Vaticano a maggior ragione pensiamo di avere una pletora immensa di buoni motivi per insultare Dio. Sará che ai tedeschi non piacciono gli italiani, ai francesi non piacciono gli italiani, agli svizzeri non piacciono gli italiani, agli inglesi non piacciono gli italiani, e di sicuro con tutti questi altri europei che non capiscono l’arte Dio poteva fare un lavoro assai migliore. Che goliardia, questi italiani. La bestemmia rappresenta un campanilismo d’animo, non di paese.
- 80 centesimi: Era il costo di un caffé in un bar senza pretese poco dopo il passaggio all’euro. É un numero che, per un motivo o per un altro, mi é sempre rimasto impresso.
“l’ultimo caffé che presi in lire” mi dice mio fratello, “lo pagai 800 lire. Piú di dieci anni fa. ‘rcoboia!.”
800 lire e 80 centesimi quando io ancora il caffé non immaginavo neanche che un giorno l’avrei preso. Quando non potevo nemmeno immaginare la fregatura che quella tazzina bianca e nera aveva profetizzato per gli anni a venire: 80 centesimi erano almeno 1200 lire, che in tempi che ormai sembrano antichi costituivano la colazione italiana fatta al bar con pasta e cappuccino. 
Oggi un espresso a Eataly a New York costa un euro e cinquanta, all’Adler di riccione un euro e settanta. Gli stipendi, peró, dal passaggio alle lire, furono tradotti alla lettera. Oggi, si arrotondano per difetto. 
- La Vespa ’50: Sará per il ritorno al vintage, sará per le sfilate di Vespe e ‘500 d’epoca che ho visto quest’estate, fatto sta che se penso all’estate di Riviera o di campagna fatta di scooter mi é impossibile non ricollegare alla vespa. Quest’estate, sul lungomare, tra la calca che affollava I ristoranti del porto vidi un ragazzetto arrivare sulla sua vespa rossa con una ragazza dietro. Aveva un ciuffo un po’ rockabilly sotto il casco e una maglietta a righe bianche e rosse. Mi vennero in mente I vecchi film in bianco e nero di Mastroianni e di De Sica, ambientati a Roma, o quelli di Fellini a Rimini, tra I bar e le balere. La ragazza non aveva abbastanza curve da ricordare la Loren o la Lollobrigida, ma mi sembró comunque uno spettacolo bellissimo. 


Mi piacerebbe sapere cosa altri italiani, all'estero e non, pensano quando si dice 'italia'. Sono sicura che ognuno direbbe almeno una cosa alla quale nessun altro italiano pensa.

mercoledì 22 febbraio 2012

Manhattan Moms alla brioche Perdue (da Sarabeth's, NY)


Sarabeth’s East, tra Madison e la 92esima, é uno dei paradisi piú vicini a casa mia. Se non fosse che in paradiso un brunch a base di brioche perdue non puó costare quattordici dollari, Sarabeth Levine potrebbe ben guadagnarsi una poltrona tra le sante. Il suo é un ristorantino dal soffitto neoclassico, legno scuro, pareti giallino chiaro e divanetti tappezzati di stoffa a fiori. Accanto a noi, due signore dal sedere flaccido in scarpe da trekking della Manhattan-bene trangugiano insalata convinte che I condimenti non abbiano calorie e parlano di rifiniture casalinghe e arrangiamenti di tendine. All’altro lato vi é una mamma col figlio al seguito, quale figlio ha dei fogli in mano, gli occhi pieni di aspettativa e forse sedici o diciassette anni. Appena il tempo di sedersi e la madre subito aggredisce il figlio a proposito di quei fogli, che si rivelano essere un compito scolastico. La povera creatura, la quale aveva negli occhi la certezza di poter dimostrare alla madre che alla sua etá é quantomeno in grado di cambiarsi le mutande da solo, comincia il suo discorso ma viene subito interrotto. Un pezzo di aspettativa nei suoi occhi si spegne, morendo sul piatto a base di pollo portato da una cameriera invisibile. La madre insiste, e si tuffa in un mare di ‘se’ e ‘ma’ e ‘avresti potuto’ che pugnalano la luce negli occhi del figlio, sempre piú chino sul suo piatto. Non andava bene, non andava bene affatto. I tuoi sforzi non sono stati sufficienti. La manhattan mom, manager della vita del figlio, ha sempre ragione. Sempre. 

Lo vede giá adulto, lei: Mio figlio, futuro laureato della Ivy League, avvocato – o medico, non importa, basta che il suo guadagno annuale raggiunga un numero a sei cifre. Mio figlio, stella del firmamento di Manhattan, regalerá a me e alla sua futura moglie gioielli e cioccolatini per natale e mi ringrazierá, salutandomi con un bacio sulla guancia. Porterá trench Burberry. Questo compito é un primo passo verso quel futuro a scacchi. Un impermeabile sopra il quale se ne mette un altro, per non sporcarlo mai. 
“Ma mamma, io credo che…” ci riprova. La mamma ribatte e l’aspettativa del figlio crolla definitivamente, come un soufflé mal riuscito. Il piatto di pollo rimane a metá, e vi si posano sopra gli occhi. I nostri sguardi, il mio e del figlio, si incrociano. Io alzo il sopracciglio e lui sospira, quasi impercettibilmente, prima di ritornare con lo sguardo sulla madre che parla, parla, parla. Io, dall’alto della mia brioche perdue/French toast non riesco a smettere di guardarlo. Vorrei dirglielo, che lui é suo figlio ma non il suo essere umano. Vorrei urlarlo. Ma a sedici anni la paura di fallire é immensa, e davanti a quella madre, nel corso del tempo, non fará che peggiorare. I suoi sguardi di aspettativa sfioriranno uno dopo l’altro, facendo cadere I loro petali su un piatto costoso.
Ordinano il conto. é stato un pranzo veloce.
Ogni volta che sono a Rimini mi (dis)piace pensare a quanti ingegneri, dottori o architetti mancati ci sono dietro I banconi dei bar, dietro le cucine degli alberghi, dietro scrivanie che non pagano I loro sforzi, rimasti per amore di casa propria. Allo stesso modo quando sono a Manhattan mi chiedo quanti appassionati idraulici, pasticceri o camerieri ci sono nascosti dentro gli uffici, rimasti per amore della propria madre. É un pensiero malinconico, a vedersi negli occhi di questo ragazzo, occhi che sono belli. É questo, un frammento di quella bellezza triste, quel wabi sabi giapponese che cosí spesso si scorge nella realtá quotidiana, se solo ci si guarda un attimo in giro. Ma non tanto per l’idraulico o l’avvocato, perché nessuno puó arrogarsi il giudizio di un mestiere. É proprio il sapersi fuori posto, lontani da ció che si é. Una lontanaza, quella da sé stessi, malinconica come la nostalgia per un amante. Il genitore che ci tiene lontani da chi non gli piace, anche se quel qualcuno che non gli piace sono proprio i figli. 
La bellezza triste degli occhi di un giovane che cerca il proprio pezzo di anima da accoppiare alla sua parte giusta e magari non lo troverá mai. 
Il conto é pagato e I due si alzano per andare via. Il ragazzo, prima di guadagnare l’uscita, mi lancia un’altra occhiata. Io, in quel momento di sguardi, vorrei dirgli: ma lo sai, tu, che sulle madri come le tue l’America costruisce torri di Xanax per annichilire le ansie? Lo sai che esiste un tipo di amore all’antidepressivo, anche se, indubbiamente, quella madre ti ama come tutte le altre madri? Lo sai che, nonostante l’amore incondizionato, ci sono genitori che non hanno a cuore la felicitá dei figli, ma solo perché nemmeno la loro ha mai importato tanto? É questa, forse, la cosa piú triste. Le Manhattan Moms mietono centinaia di vittime, ma non lo sapranno mai. E tu, tu lo sai?
‘Lo so’, sembra rispondermi lui, e, con una parvenza meravigliosa e pacata di un mezzo sorriso, si dilegua dietro l’ombra della madre.



Sarabeth's é un caposaldo tra le 'Bakeries' di New York. Certo, costa un po', ma sedersi in uno dei suoi ristoranti a mangiare i suoi favolosi dolci é a parer mio un'esperienza da provare almeno una volta. E' particolarmente famosa per le sue conserve e i suoi biscotti, ma anche la mia brioche perdue era favolosa. Potendo, é meglio evitare il weekend se volete pranzare o fare un brunch, trovereste molta fila. 


Senza contare che il packaging e la grafica legata al marchio é stata eseguita da Louise Fili, immensa agenzia di New York specializzata in grafica per cibi e ristoranti:

venerdì 17 febbraio 2012

Vorrei dare risposte Zen


Fuori da un negozio dell’86esima c’era una ragazza che offriva dei ‘samples’ di una pappa d’avena con mirtilli e cannella. C’era una bambina che la mangiava con un sorriso mite, senza rispondere alla madre che le chiedeva se le piaceva. La ragazza fermó me e prima di me un signore, che osservava l’ultima coppetta con aria curiosa. Lo prenda lei, gli faccio, ma lui no no, si figuri signorina, lo prenda lei, ci mancherebbe. Sicuro? Si si, sicuro.
Lo assaggiai ed era una schifezza. Avrei voluto dirglielo, a quella ragazza, quando mi ha chiesto se mi piacesse: guarda, senza offesa alcuna, ma questa roba fa schifo. Ma quanta America c’é qui dentro? É qualcosa che ti ricorda l’infanzia, a te? Io non ho mai mangiato avena in vita mia. Per me non significa niente. A me non piace, ma a te?
Allora ci ripensavo, alla risposta che non ho saputo dare a quella ragazza – perché pur di non cadere nella trappola della rispostina ‘é interessante’ che é una risposta da pirla, ho preferito stare zitta e sorridere. Ripensavo a tutte le risposte in cui un milione di cose vorrebbero venire fuori e si ammassano tutte in gola come una mucchia di gente che cerca di passare attraverso una porta, e alla fine non passa nessuno tranne quello piú piccolo - il nano, riuscito a sgusciare via tra le gambe delle risposte grosse. Come quando in un negozio di scarpe non hanno il tuo numero e la commessa risponde ‘mi é rimasto solo il 40’. E allora? Cosa rispondi quando chiedi un 37 e ti dicono che gli é rimasto il 40? É un’affermazione che non chiede una risposta, é solo un intercalare inutile per nascondere la delusione. A quel punto immagino gente che porta il 39 e trova sempre le scarpe. Immagino gente alla quale piace il pappone d’avena e non si trova in imbarazzo nel cercare una risposta.
Ma dev’esserci un modo di rispondere pacato, un modo di rispondere elegante, che non permetta a tutta quella mucchia alla porta di uscire in’un’accozzaglia di rabbia che non risolve nulla. Una risposta zen, quasi giapponese, direi. Una risposta che esce dalla porta dell’animo come una geisha che trascina I piedini in silenzio. Qualcosa di pieno di grazia, come Hemingway parlava del morire in ‘Mezzanotte a Parigi’ di Allen. Con grazia.
Cosí, dev’esserci una risposta elegante e dignitosa da dare a un Monti che mi dice che il posto fisso é noioso e non si troverá piú. Dev’esserci anche una risposta elegante da dare a Sanremo, ai vestiti della Belen, che é bellissima ma assolutamente priva di eleganza, come un regalo costoso fatto senza cura e messo su un mobile in salotto. E allora penso a figli che faranno gli avvocati nell’ufficio del padre quando avrebbero potuto essere pregevoli letterati, dottori o falegnami, penso ai sessantenni impiegati al comune da quando ne avevano 17. Penso a un bravissimo illustratore che per un periodo fu mio insegnante e al quale bastó il diploma di maestro d’arte per insegnare. Poi penso all’eleganza che non deriva dagli spacchi nelle gonne, tipo il fascino di Siobhan O’Riordan. E, quando tutto quello che sembra voler uscire é un’ondata di bestemmie e di vaffanculo che si ammassano contro quella porta in gola, alla fine esce solo il piú piccolo e insignificante, un ‘ma vaffanculo’ timido e sfigato, quasi nerd.
Io vorrei invece trovare una risposta zen. una risposta per non incazzarmi e sputare bile. Una risposta che, soprattutto, non implichi l’andare via con un sorrisino falso.
Ripensandoci, peró, l’unica cosa da dire avrei voluto dirla al signore che guardava la coppetta con aria curiosa, ovvero: “Tranquillo. Non si é perso niente.”

EDIT: poi ti sovvengono le notizie del tipo che la Rai vuole mettere il canone a computer e iPhone. Per cose del genere di risposte eleganti da dare mi sa che non ce ne sono. O, almeno, non credo di essere a un livello di illuminazione tale da trovarne. Se qualcuno ne trova, prego mi illumini, che concludere con un vaffa mi sembra comunque poco fine.

giovedì 9 febbraio 2012

Di Essere Italiani e di essere Italiani all'estero

Quella mattina la notizia me l’ha data il Capo dell’ufficio. Io non so perché proprio quella mattina non mi fossi interessata a cosa stesse succedendo oltreoceano, fatto sta che non avevo aperto né un qualche giornale italiano né il NY Times. Ma quel giorno alle 9 di New York in Italia erano le 3, e il patatrac era giá successo. Sicché arriva il capo e mi fa:
“Oh, Valentina! Ma ci credi? Berlusconi si é ritirato! Ma ci credi, oh?! RI-TI-RA-TO! Cioé é pazzesco! Non era nemmeno bastato lo scandalo del puttanaio di festini con Ruby, ma si vede che un po’ si é vergognato e finalmente ha ceduto la poltrona!”
Parole testuali del Capo, che é anche la stessa persona che un paio di settimane prima aveva detto:
“Non posso credere che l’Italia sia una Democrazia e che allo stesso tempo al governo ci sia Berlusconi.”
Con questa frase innocentemente crudele il Capo ci ha riuniti tutti sotto la stessa tenda.
Mi sono sentita come se lí, seduta sui divanetti bianchi dell’ufficio, lui avesse preso e mi avesse disegnato in mezzo alla faccia una bella riga nera con un pennarello, a mo’ di faccia da culo. Una bella riga che mi dá come a intendere una insinuazione, come se nel grande rimpiattino europeo di fine anno, mentre fingevano di giocare tutti se ne fossero andati e avessero lasciato a noi l’onere di finire il gioco del sapone, per chinarci a novanta a raccogliere la proverbiale saponetta.
Io, a New York, ci sono venuta in maniera molto ingenua, forse senza ritrovarmi troppo nella cosa dello stereotipo italiano perché nessuno capiva che io appartengo allo Stivale. Poi rispondendo ai vari ‘di dove sei?’ venivano fuori domande, commenti e affermazioni che per certi versi facevano visualizzare l’italia come un grande sud sul quale regnava incontrastato il Berlusca con corona e scettro. Se ne parlava con un filo di divertimento, di questo paese che affascina e che gesticola. Agli Americani l’italia piace, non si sa di preciso se per la sua cultura o se perché é cosí divertente da prendere in giro. Tra italoamericani di terza generazione che magari vogliono sentire parlare con nostalgia di un paese che alla lontana gli appartiene ma che non hanno mia visto, tra gourmands italianofili e appassionati del pittoresco si finiva comunque spesso e volentieri a parlare di Italia.
Ecco quindi le 5 cose che maggiormente mi hanno detto, a New York, sul tema italia:
  1) “TATA-RAAAA-TATA-TAAAATATTATTATATTARAAA! (sulle note di una celebre musica napoletana)
  2) “io ADORO la cucina italiana! Ma il Chicken Parmesan é un piatto italiano?”
  3) “Ma non vi fa incazzare che Berlusconi si paghi le puttane con I vostri soldi?”
  4) “Io ho un parente/amico/cugino/zio/sorella/amico che ha studiato/vissuto/ a Roma/Firenze/Venezia e non voleva tornare piú a casa!
5)  “Ma…tu lo guardi Jersey Shore?”

E le mie personalissime risposte sono state:
  1) “Ma anche no.”
  2) “No, il Chicken Parmesan NON é un piatto italiano. E, tanto per la cronaca, non credo di aver mai visto un italiano mettere del pollo sulla pizza.”
  3) “Si, ci fa incazzare, ma quello che ci fa incazzare ancora di piú é che le testate italiane abbiano pubblicato la metá delle notizie sui vari casi italiani rispetto al NY Times.”
  4) “Eh, l’italia é splendida…se poi vuoi farci le vacanze, figuriamoci! Devi vedere Amalfi, la Puglia, ma anche tutta la Toscana e le montagne…eeeh!” *Risposta da immigrato pirla*
  5) “no, non guardo Jersey Shore/sí, guardo Jersey Shore e ci tengo a puntualizzare che I Guidos sono una cosa unicamente Americana. Giuro.” *poker face*

NB: Questa cosa di Jersey Shore ci ho messo un po’ a capirla. Non l’avevo mai guardato e in seguito, dopo varie spiegazioni, ho ricevuto l’illuminazione. Sono stata una volta nel New Jersey, in un ristorante italiano (Americano) e mi hanno chiesto “Come contorno al piatto principale vuole la pasta o l’insalata?”
Mi ci sono voluti 5 secondi per rispondere, ma ho superato il trauma con stoico coraggio.