martedì 13 marzo 2012

Hot Dog e rappresentanti di saloni di bellezza

“Signorina? Signorina! Si Fermi! Mi scusi!”
Ti giri e sai che non avresti dovuto farlo. Un tizio trafelato con valigetta e volantini ti intercetta e ti stoppa come un passaggio a una partita di calcio. Siamo davanti al Flatiron building e tutto quello che voglio dalla vita in quel momento é procacciarmi del pranzo.
“Signorina…le piace andare dal parrucchiere? Che ne dice di un bel makeover in uno dei nostri nuovi saloni?” Fa il tipo.
“Ma io veramente non avrei proprio – “
“Ma lei non ha capito ancora quale offerta io voglio farle! Guardi qui,” e apre il volantino. “Guardi. Un makeover facciale completo: scrub, trattamento antiacne, maschera antirughe, PIU’ taglio, piega, asciugatura! Quanto costa tutto un trattamento simile, me lo sa dire? – comunque, belle scarpe!”
“Ehm, grazie.”
“Lo sa? No che non lo sa! Perché nessuna giovane abitante di New York come lei, magari studentessa, spenderebbe tutti questi soldi. Io le offro tutto questo al prezzo di 60 dollari anziché 250! Non é splendido? Dia un’occhiata!”
Lo fisso negli occhi e prendo il volantino sperando, in cuor mio, che questa persona venga pagata in proporzione agli insulti che si prende ogni giorno. Mi fingo interessata al volantino e lo lascio sproloquiare, posando gli occhi sulla sezione in cui si richiede il numero della carta di credito. Purtroppo, ogni cittadino semi intelligente sa che: 1) MAI lasciare cose quali numeri di carta, di telefono, indirizzi et similia a gente per strada; 2) Un salone che ha bisogno di tutta questa esaltante pubblicitá non é detto che sia una garanzia.
Glielo restituisco con un sorriso e un dolce “Grazie, non mi interessa!” Lui mi guarda con occhi assatanati.
“Ma no, signorina! Lei non capisce quello che si perde! Dove sta andando? Aspetta! GUARDA QUI CRETINA! IO DEVO LAVORARE! SIGNORINAAAAA!”
*
Fuori dalla fermata di casa, davanti a Sephora. C’é questo nugolo di ragazzi che sembrano rappresentanti dell’ArciGay. Cerco di dribblarli passando dietro a una signora, ma uno dei tizi, un bel ragazzo di colore con una turtleneck attillata grigia – una delle cose meno eterosessuali che abbia mai visto in vita mia, mi intercetta e mi prende per una spalla.
“OH-OH – ma che bella ragazza che abbiamo qui! Senti, Tesoro, non é ora di pensare a un bel restyling per la tua acconciatura? E – cavolo, belle scarpe!”
“Grazie, adoro le Oxford.”
“Hai gusto! A maggior ragione, non posso lasciare andare una bella ragazza come te senza questa favolosa offerta! Sai?” Si piega verso di me e sussurra. “E’ solo per og-gi!”
E alla fine della frase ti immagini ci sia un cuoricino. 
Lo fisso. Questo da smontare sará difficile. Continua a parlare scuotendo il sedere e sventolando le mani e io mi immagino cuoricini che gli svolazzano intorno tipo my little pony.
Mollami. Voglio solo prendermi un hot dog. Tutto quello che chiedo da questa giornata é arrivare a casa con il mio hot dog. Un bell’hot dog da un dollaro con tutto il coleslaw sopra. Yummmm.
Alla fine mi salva la storia della carta di credito. “Non ti do un soldo,” gli dico, e fuggo via tra le sue urla.
Il piú persistente: a Penn Station, alle sette dis era, ora di punta: un tizio cicciotto, decisamente poco elegante, ma piú convinto di tutti gli altri. C’era una partita dei Lakers a Madison Square Garden e in stazione non si passava. Tuttavia la prescelta, tra tutta quelle gente, sono proprio io. Ma mi sento ispirata e decido di lasciarlo parlare. Passano dieci minuti in cui lui esalta miracolosi trattamenti all’avocado, eliminazione totale di punti neri e smagliature e capelli che se scuoti la testa fanno swoosh. io annuisco e sorrido. Li ho contati, dieci minuti senza quasi prendere respiro.
“E insomma ha capito?” Ansima alla fine tipo ippopotamo. “Vuole provare? Ma si che vuole provare! Basterá riempire questo modulo!”
“Ma scusi,” obietto io, “Perché devo firmare per forza questo coso? Non posso venire direttamente in salone con il coupon?”
La domanda ovvia distrugge tutti.
“Eh ma no, ma perché, ma come sarebbe a dire, ma serve solo una firmetta, ma suvvia.”
“Lei si rende conto che ci troviamo a New York, sí?”
“Ma certo, e allora…?”
“Arrivederci!”
“Ehi, aspetti! DOVE CREDE DI ANDARE!!! TORNI QUI! LEI E’ UNA CRETINA A LASCIARSI SFUGGIRE UN’OFFERTA SIMILE!”
Gli faccio un cenno con la mano e mi dileguo tra la folla. Lui mi guarda andare via, deluso.
“…E comunque, belle scarpe!”



NB: Ci tengo a puntualizzare che tutto questo é successo davvero. Due di questi signori mi hanno fermata nella stessa giornata e tutti hanno usato la scusa delle scarpe. Persino uno al supermercato, mentre metteva in ordine gli yogurt, mi ha fermato per dirmi che erano belle. Belle scarpe e capelli di merda? Non lo sapremo mai.

lunedì 5 marzo 2012

La Categoria che fa l'America

La donna decise di abortire. Quando il feto venne estratto, peró, la bambina di cinque mesi che vi era all’interno era ancora viva. Oggi questa bambina ha scritto un libro e va in tv a raccontare del suo miracolo. Il suo nome é Gianna Jessen. É una donna con un sorriso largo, che arriva agli occhi e le fa le rughette sulle guance, quei sorrisi che mostrano tutti I denti e che, se escono finti o forzati, si nota da morire.
“Ma riesci, oggi, da adulta inamorata della vita, a perdonare tua madre?” le chiedono. Lei fa il sorriso forzato che fa vedere tutti I denti ed esita.
“Si, io la devo perdonare. Perché sono Cristiana, e il perdono é parte del cristianesimo. Io la devo perdonare, perché sono Cristiana, e devo…”
Devo. Devo. Lo ripete. Sono Cristiana. Sono Cristiana.
Di colpo, sentendola parlare, mi sono venuti in mente i primi film di Tim Burton, con quei vialetti lunghi e le case tutte uguali ai due lati della strada. Ai divani con due lampade, una a ciascun lato. Fateci caso, nei film americani ci sono spessissimo. Ho pensato alla mia coinquilina che raccontava della signora che va nel negozio di Chanel di Saks 5th Avenue e compra tre giacche uguali, per paura di rimanere senza. E allora lei ripete, ripete. Anche questa Gianna Jessen, anche se solo a parole, mette una fila di vasi tutti uguali sul davanzale della finestra. Due candelabri uguali ai due lati del tavolo. Due lampade uguali ai due lati del letto, ai due lati del divano, ai due lati della tivú. Sono scristiana. Sono Cristiana. Devo perdonare.
Le lampade uguali ai due lati della vita, questo nuovo simbolo dell’uomo moderno che non sopporta la solitudine di un elemento unico che diviene protagonista e che no nsa come affrontarlo, al quale non saprebbe dare una risposta pacata come quel ‘la devo perdonare’.
Questo reiterare, questo ripetere in ogni contesto della vita che crea un ordine solo apparente ma che non riesce a nascondere una pesantezza di fondo. L’insicurezza di non essere in grado di gestire un elemento solo, per non soffrirne la mancanza, perché appartenere a un punto con piú similitudini é come ‘schivare’ la solitudine.  La Categoria, che ce ne salva. Allora, sentendola parlare, ho pensato: nessuno é convinto della categoria a cui appartiene come un Americano. Sono Cristiana, é questo che mi da la sicurezza di perdonare mia madre.
Tutti lo facciamo, perché la Categoria é un modo come un altro di incastrarci nel puzzle sociale, per salvarsi da una solitudine che altrimenti non si saprebbe combattere. Ma, se magari a volte qualche dubbio circa l’inserirci in una di esse puó insorgere, in America la convinzione di appartenenza si sente con un forza quasi malata. I Blue Collar, I White Collar, quelli del Bronx, le nere, I messicani, le Checche, quelli che vivono nel New Jersey, I Cristiani, gli Ebrei, quelli del Lower West Side, gli hipster di Brooklyn, eccetera. Io faccio una determinata cosa, mi comporto in un determinato modo, per la maggior Gloria della categoria a cui appartengo.
Quando feci domanda all’universitá, nel form d’iscrizione mi si chiedeva se fossi d’origine ispanica.
“Ma perché vogliono sapere se ho origini ispaniche? Che gliene frega?” chiesi ingenuamente.
“Eheh, vogliono sapere se porterai una pistola in classe,” mi sentii rispondere. Lí per lí mi sembró una risposta di cattivo gusto, ma in seguito capii che il motivo era quello per davvero. É come se in Italia nello stesso form ti chiedessero se sei rumeno. Si solleverebbe un polverone. Eppure a New York é una cosa normale, non tanto per mancanza di rispetto quanto per l’effettiva forza con la quale si sente di fare di una categoria un fascio, compresa (e soprattutto) la propria.
E Gianna Jessen perdonerá sua madre. Perché é Cristiana.
Me la immagino, la madre di questa donna, che se mai un giorno vorrá chiedere perdono lo fará inginocchiandosi e accendendo un lume al Dio di cera che le colerá sulle mani mentre prega. Pregherá e pagherá le candele, e chissá se le basterá quando si ritroverá la gola e le mani impastate di un perdono elargito da Dio e non dalla figlia. Sono cert ache questa madre tenesse piú al perdono della figlia che al perdono di Dio.
E allora mi sono chiesta: Non ci puó essere una capacitá di perdono che deriva dall’animo umano proprio perché noi siamo uomini, senza doversi per forza attaccare a un’idea o a un ideale? Non esiste una capacitá di ascolto, di compassione, di umanitá che deriva da una capacitá di comprensione piú che da una bontá d’animo, e non imposta dalla categoria a cui si sente di appartenere?
La categoria si forma per facilitare I rapporti umani o perché, effettivamente, non siamo in grado di privarci di una delle due lampade? Ma non c’é un modo per l’umanitá di trovare ragioni per perdonare non perché si appartiene alla categoria dei cristiani, ma per capire cosa per sé stessi significa il perdono? Non c’é un modo per l’uomo di non essere razzista non perché sei repubblicano e quindi devi accettare tutti, ma perché é bene realizzare che siamo tutti uomini?
Ma soprattutto: Gianna Jessen, la donna che é oggi, sarebbe in grado di perdonare sua madre se non fosse Cristiana?