martedì 7 febbraio 2012

Sauce Parisienne



 

Le turiste americane vanno verso Notre Dame con sentimenti da matrone e portamento da folletti – leggere ma poco eleganti, sognando crepe acquistate da un banchetto color pastello e servite da un signore francese con la barba incolta. Crepe e croque monsieur sono sudditi del regno di indiani ed asiatici di fronte alla Nostra Signora, che immensa e senza pietá vide tagliare teste come oggi vede tagliare Panini. c’é un ragazzo dietro uno di questi banchetti. Non ha la barba incolta, ma é francese, bellissimo. Sembra Gaspard Ulliel. Aspetta con un sorriso tenue, e vende le crepe al cioccolato a due euro e sessanta. L’indiano del banchetto vicino le vende a tre. Le turiste americane si fermano, lo guardano. Lo guardiamo. Due crepe al cioccolato piú la mia, e giá che ci sei un altro dei tuoi sorrisi. Cos’avrai, vent’anni? Avrai piú o meno la mia etá. Ti immagino studente, squattrinato, costretto a venderti a qualche forza maggiore per sopravvivere. Non so perché, mi piace immaginarlo cosí, con una sorta di retrogusto sadico. Forse per esorcizzare la delicatezza del tuo viso, che due o tre lividi non fanno male a nessuno. Fanno curriculum. Con un sorriso cosí, in mezzo a questa Parigi gelida, sembri un raggio di sole impertinente. O forse perché ho visto quel film del quale non mi viene il titolo, di quel regista belga, in cui una studentessa di Parigi é costretta a prostituirsi per mantenersi agli studi. Che pensiero orribile. Un cosí bel viso e un pensiero cosí brutto. Facciamo tre euro, che l’immaginarti venduto per aver bisogno di studiare mi rende triste. Ti lasceró la mancia e tu penserai che l’ho fatto perché sei bello. Ma é solo un mio pensiero malato. Passerá presto.
E su, dietro la Gare du Nord, gli indiani nei call center ricostruiscono la loro cittá cassa dopo cassa, telefono dopo telefono, interrompendo con voci forti quella di Edith Piaf e con incenso e spezie l’odore degli uomini di Parigi, che mettono profumi forti e costosi, che in mertopolitana si riconoscono piú di una volta, sempre gli stessi. Dalla parte opposta della cittá, a Porte d’Italie, sono I cinesi a costruire  le loro case, facendosi beffe del nome di quel terreno nuovo, quasi come a New York, che la piccola Italia se la sono presi loro. Nessun rancore. Sappiamo tutti che in cittá le cose sono di chi spinge piú forte.
Parigi, sei diventata una cittá come le altre e I fantasmi di Juliette Greco e di Yves Montand ti graffiano il viso pensando che porti una maschera; ti pestano sotto I piedi cercando di risvegliare il fascino degli anni in cui a Pigalle c’erano prostitute e non fast-food. Ti guardano, dall’alto, dove il Sacre-Coeur cerca Dio che sembra nascondersi nei carillon e la prende in giro, ridendo da fuori la porta.
“Parigi d’inverno fa schifo”, dice un tipo che ho incontrato a Montmartre. Ma Woody Allen dice di no, mi verrebbe da ribattere, ma coi locali non si discute.
Parigi d’inverno non fa schifo, no. É che a vedere sempre grigio a volte ci si dimentica un po’ dei colori, ecco tutto.
Ripassando a Notre Dame penso al ragazzo delle crepe, ma non vado a rivederlo. Mi piace pensare alla sua come la bellezza che si vede una volta e che ti insegna ad apprezzare meglio tutte le altre. Alla bellezza che I fantasmi di Edith, Juliette e Yves ricoprono di graffi perché soffrono di nostalgia.
Una bellezza eterna. Un’eternitá derivata dall’averla vista quell’unica volta.
Compro la mia crepe dal cinese della strada accanto.
La mancia per il ragazzo. Quella é stata il mio modo di rendere eterna un pezzettino di bellezza che era un sorriso piú che una faccia, in una Parigi che appartiene al ventunesimo secolo e non piú ai fantasmi o a Dio. Quel ragazzo sta a Parigi come lo sta la baguette.
E no, quell’eternitá non l’ho comprata: la mia era un’offerta libera.



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